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Non lasciamo vincere la guerra ! (di Giuseppe Riggio)

Non lasciamo vincere la guerra Giuseppe RIGGIO

La guerra, qualunque guerra, con il suo inevitabile bagaglio di morte e distruzione, costituisce una battuta d’arresto, che stravolge ciò che fino all’istante prima del suo scoppio era la normalità di un popolo, di un Paese. È tale per le persone coinvolte: i militari che combattono, i loro familiari, i civili che vivono nelle aree teatro degli scontri. Ma lo è anche per la vita politica e sociale dei Paesi in conflitto, spesso anche per quelli confinanti e in taluni casi vi è un impatto a un livello ancora più ampio, continentale o mondiale. La guerra come cesura non si limita a interrompere l’ordinario, ma impone di fare i conti con le perdite e le distruzioni che causa e obbliga a pensare il futuro, perché semplicemente tornare indietro non è realistico, nemmeno quando finalmente le armi tacciono.

Il ritorno della guerra in Europa

L’operazione militare speciale in Ucraina, come definita ufficialmente dal presidente russo Vladimir Putin, lanciata il 24 febbraio 2022, ha messo fine a un periodo di oltre 75 anni durante i quali in Europa non ci siamo confrontati così da vicino con la cruda realtà della guerra, a parte i conflitti seguiti alla dissoluzione della Iugoslavia negli anni ’90 del secolo scorso. Doveva essere una guerra lampo, ma si è tramutata in un conflitto a oltranza dopo che la rapida avanzata iniziale delle truppe russe è stata fermata, e in molti casi anche ricacciata indietro, dalla resistenza ucraina, sostenuta da un’ampia alleanza di Paesi che hanno fornito armi e aiuti umanitari. Contemporaneamente all’invasione è iniziata la dolorosa contabilità delle sue conseguenze, che qui ricordiamo per vincere il distacco e l’assuefazione che il protrarsi del conflitto può generare. I dati a disposizione sono il più delle volte delle stime, sovente contestate dalle parti coinvolte che preferiscono non rivelare le proprie informazioni sensibili, ma fanno intuire la gravità di questo conflitto. Secondo fonti militari statunitensi sono morti circa 100mila soldati russi e altrettanti ucraini, mentre le vittime civili confermate in Ucraina sono poco più di 7mila secondo l’ONU, che però ritiene considerevolmente più alto il bilancio reale. Infine, sono milioni i rifugiati e gli sfollati interni. La strategia russa mira a colpire le infrastrutture ucraine con un duplice obiettivo: nell’immediato rendere più complicata l’organizzazione della difesa e fiaccare la resistenza della popolazione, costringendola ad esempio ad affrontare l’inverno senza acqua ed energia; sul medio e lungo termine mettere in ginocchio l’economia del Paese, che dovrà ricostruire buona parte delle sue infrastrutture. La devastazione della guerra non risparmia l’ambiente, visto che gli attacchi colpiscono centrali nucleari e industrie chimiche, foreste e riserve naturali, al punto che si stima che ci vorranno cinquant’anni perché possa guarire la ferita causata dal conflitto.

Per non essere spettatori inerti

La lista delle conseguenze del conflitto in Ucraina non si esaurisce con questi dati: vi sono altri aspetti più generali, che ci interpellano direttamente e nei confronti dei quali si pone con maggiore forza l’interrogativo su come rispondere alla violenza distruttiva della guerra. Tra i passi possibili ne indichiamo tre che ci paiono particolarmente significativi per non restare passivi.
– Dare parole al discorso della pace Tra le vittime della guerra vi è la stessa pace. Nel dibattitto pubblico italiano e internazionale, le voci impegnate a costruire occasioni di dialogo e percorsi di pace che prescindano dal ricorso alle armi sono sovente ignorate, considerate ingenue o tacciate di sostenere in modo più o meno palese l’aggressore russo. È quanto accaduto tra gli altri anche a papa Francesco, che in modo instancabile denuncia che questa guerra, al pari di ogni altra in corso nel mondo, è una tragedia disumana.
La narrazione che la pace è possibile senza ricorrere alle armi e senza che questo implichi automaticamente la resa all’aggressore, non trova spazio su tanti mezzi di informazione o è riportata in modo distorto, semplificato, a differenza di quanto avviene per i discorsi favorevoli al prosieguo della guerra o all’invio di armi. Vittima di questo trattamento è anche il discorso pacifista e nonviolento, che risale ai movimenti novecenteschi guidati da figure come Gandhi, Martin Luther King o Nelson Mandela. Non basta lamentarcene. Questa constatazione deve diventare un invito a chiederci come mantenere desta l’attenzione a quella cultura: in che modo i cambiamenti occorsi dal 1989 in poi sul piano culturale, economico e sociale, sollecitano una rilettura approfondita dei principi e degli argomenti a favore della pace, e soprattutto delle strategie per costruirla alternative alle armi? Come mettersi in ascolto delle evoluzioni registrate nella società e nella comunità internazionale, per poter dare una rinnovata forza al pensiero nonviolento? Si tratta di un lavoro sul piano culturale di lungo periodo, per indagare e smascherare le cause profonde dei conflitti, spesso legate a questioni economiche (e quindi anche agli stili di vita) e di ingiustizia. La scelta di assegnare i premi Nobel per la pace nel 2022 all’attivista per i diritti umani bielorusso Ales Bialiatski, all’ONG russa Memorial e a quella ucraina Center for Civil Liberties ha acceso i riflettori internazionali su soggetti che da decenni sono impegnati in questa direzione, a testimonianza che vie alternative sono possibili.
– Difendere la democrazia e la libertà
Proprio la scelta dei Nobel apre a un’ulteriore considerazione. Per giustificare l’aggressione a uno Stato sovrano, Putin ha evocato la necessità di «smilitarizzare e denazificare» l’Ucraina, per proteggere i cittadini delle regioni del Donetsk e Lugansk, «oggetto di bullismo e genocidio da parte del regime di Kiev per otto anni», rivendicando così di agire per garantire il rispetto dei diritti umani. Al di là della valutazione che se ne può dare, la scelta ipocrita di ammantare l’aggressione militare con una motivazione umanitaria è un indice della forza che il tema dei diritti umani ha definitivamente acquisito, non solo nelle democrazie occidentali. D’altronde, la strenua difesa del proprio Paese e della propria libertà da parte degli ucraini – al pari delle manifestazioni che da mesi si tengono in Iran – è la riprova che l’anelito e l’attaccamento a questi valori è talmente forte da accettare di rischiare la vita per difenderli o affermarli. Si tratta di una lezione capitale per noi cittadini delle democrazie occidentali, sempre più esposti al rischio di considerare come acquisito il patrimonio di libertà conquistato dalle generazioni che ci hanno preceduto. Come possiamo tornare a prenderci cura delle nostre istituzioni democratiche, senza ripetere in modo automatico e acritico schemi del passato? Come possiamo amarle e farle evolvere al passo dei cambiamenti che avvengono nella società? La democrazia non è altro che un modo nonviolento di costruire e mantenere la pace sociale in un Paese. Lo sappiamo bene come cittadini italiani: la nostra Costituzione, scritta esattamente 75 anni fa, è una testimonianza viva e vitale della ricerca di un modo di vivere insieme dopo la dittatura e la guerra civile, al fine di gestire l’inevitabile conflitto attraverso modalità che assicurino l’ascolto e la partecipazione di tutti.
– L’assetto mondiale da ridisegnare
L’anelito a superare la logica della violenza come soluzione ai conflitti si ritrova anche all’origine dell’ONU e di altre istituzioni internazionali, che oggi soffrono della crisi del sistema multilaterale. A questo proposito, nel discorso del 9 gennaio 2023 al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, papa Francesco richiamava l’urgenza di «una riforma degli organi che ne consentono il funzionamento, affinché siano realmente rappresentativi delle necessità e delle sensibilità di tutti i popoli […]. Non si tratta dunque di costruire blocchi di alleanze, ma di creare opportunità perché tutti

possano dialogare». Su questo tema, da tempo al centro dell’attenzione internazionale, non si registrano effettivi passi in avanti. Lo scenario politico mondiale è profondamente mutato dalla fine della Guerra fredda, mentre le maggiori istituzioni internazionali, create nel mondo bipolare dei due blocchi contrapposti uscito dalla Seconda guerra mondiale, sono rimaste congelate nel passato per un gioco di veti reciproci e inerzie. Le implicazioni di politica internazionale del conflitto in Ucraina toccano pure l’Unione Europea, anch’essa nata come strumento per costruire la pace, che resta fondamentale se continua a restare fedele a quell’anelito. La risposta sostanzialmente compatta di condanna dell’aggressione russa non è stata sufficiente a nascondere l’esistenza di una pluralità di agende e priorità tra gli Stati membri, come emerso ad esempio per quanto riguarda l’aumento del prezzo del gas e dell’energia. La fatica che fanno queste istituzioni internazionali a svolgere i compiti per cui sono state create ne decreta la progressiva perdita di credibilità e autorevolezza, proprio in un tempo in cui molte problematiche, a partire da quelle ambientali, richiedono un’azione congiunta per trovare soluzioni efficaci. La cultura del dialogo indicata da papa Francesco, che deve riguardare tutti gli attori coinvolti (istituzioni internazionali, Stati, società civile), diventa feconda in questa prospettiva, anche per fare tesoro della lezione del passato che vede la nascita delle istituzioni internazionali come frutto di una collaborazione tra soggetti diversi per la gestione nonviolenta del conflitto. Che cosa dobbiamo aspettare per prendercene cura?

Ipotecare il futuro

Non era necessaria una guerra in Europa per rendersi conto della rilevanza di queste questioni. Ma questa guerra anomala, dove il ricorso alle tecnologie più moderne convive con il protrarsi delle battaglie sul campo per conquistare un villaggio, raccontata tra notizie che viaggiano sui social media mentre circolano le “versioni ufficiali” dei Governi (in entrambi i casi con il dubbio che siano addomesticate), può spingerci ad affrontare sul serio questi snodi fondamentali del nostro presente e futuro. Questo accadrà sia se non riduciamo il conflitto in Ucraina alle nostre beghe nazionali (ad esempio, l’impatto del prezzo del gas), perché è indice di una autoreferenzialità poco lungimirante e incapace di tenere conto dello scenario più ampio di cui siamo parte (e in cui vi sono anche altre guerre), sia se non ci abituiamo alla distruzione e alla morte che sta seminando, se non acconsentiamo al pensiero che non vi sia un’alternativa alla guerra.

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