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Cineforum 2025 – Le Schede

Un film elegante, dalla scrittura brillante e dalle interpretazioni di alto livello.
 
Un film di Pascal Bonitzer con Alex Lutz, Léa Drucker, Nora Hamzawi, Louise Chevillotte, Arcadi Radeff. Genere Drammatico durata 91 minuti.
 
Ispirato ad un fatto realmente accaduto, un film che racconta le disavventure di un uomo e di un quadro rubato.
 
Tratto da; Simone Emiliani – www.mymovies.it

Un giorno André Masson, un esperto d’arte che lavora come banditore della celebre casa d’aste Scottie’s, riceve una lettera in cui gli viene comunicato il ritrovamento di “I girasoli”, un dipinto di Egon Schiele, scomparso dal 1939 dopo essere stato saccheggiato dai nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale. Si trova nell’abitazione di Martin, un giovane operaio chimico che abita a Mulhouse, nell’Est della Francia. Piuttosto scettico sulla sua autenticità, André si reca comunque sul posto per esaminare il quadro assieme a Bertina, una sua collega ed ex-moglie per valutarlo e, dopo un’attenta analisi, scopre che si tratta dell’originale.

Da questo momento la sua carriera può decollare definitivamente ma ci sono alcuni eventi che invece possono metterla in crisi. André punta ad avere per il dipinto il miglior prezzo possibile ma un potenziale acquirente gioca al ribasso. Potrà contare però sull’aiuto decisivo di Aurore, una stagista dal comportamento ambiguo con cui ha un rapporto conflittuale.

L’inganno dell’arte. Si muove lungo la dialettica tra vero e falso il film di Pascal Bonitzer, ispirato a un’incredibile storia realmente accaduta e il cui titolo rende dichiaratamente omaggio a ‘L’hypothèse du tableau volé’ di Raúl Ruiz.

Attorno al dipinto si muovono i destini dei protagonisti, da André Masson sempre sul filo dell’instabilità resa dalla recitazione volutamente disturbante di Alex Lutz, a Martin che ha quasi paura del cambiamento che può avere la sua vita fino ad Aurore che rappresenta quasi l’opposto di Bertina; le due protagoniste femminili sono anche in evidente contrapposizione, quasi in un continuo cortocircuito tra luce e ombra, sottolineata dalla rispettiva interpretazione di Louise Chevillot e Léa Drucker. Anche se diversissime, Bonitzer le mostra come due figure sfuggenti, apparentemente ai margini della storia, ma che poi diventano decisive ogni volta che agiscono. Oltre che sul quadro di Schiele, anche sulla caratterizzazione di Aurore il cineasta francese estende la sua riflessione sull’imbroglio, la truffa, evidente nelle bugie che la ragazza racconta sulla sua vita.

‘Il quadro rubato’ è un film che mostra non tanto il mondo della pittura ma chi ne trae profitto. Per questo sono tese ed incalzanti le scene delle aste, dove quella finale del quadro è già anticipata da quella di un libro. C’è nello sguardo del cineasta un’indiscutibile eleganza ma anche una tensione nascosta. In ogni immagine si possono rintracciare i misteri che si possono cogliere guardando “I girasoli”.

Caratterizzato da uno stile classico ma efficace, Il quadro rubato è una commedia/thriller morale ed acida dalla scrittura brillante, un tableaux vivant dove i personaggi rivelano le loro ossessioni e la loro follia grazie anche alle prove di alto livello dei suoi attori. Un cinema sull’ambiguità vecchio stampo, controllato formalmente ma che sa essere anche intrigante.


L’incontro dolce, beffardo (e politico) di due anime sole, sullo sfondo di un Iran decadente.
Un film di Maryam Moghaddam (II), Behtash Sanaeeha con Lili Farhadpour, Esmaeel Mehrabi, Mohammad Heidari (II), Mansoore Ilkhani. Genere Drammatico durata 97 minuti. 
 
L’inaspettato, dolce e beffardo incontro tra una donna e un uomo entrambi soli.
 
Tratto da: Roberto Manassero – www.mymovies.it

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Vedova da una trentina d’anni, la settantenne Mahin non ha mai voluto risposarsi e da quando la figlia è partita per l’estero vive sola a Teheran nella sua grande casa con giardino. Stanca della solitudine, dopo un pranzo con le amiche che l’ha spinta a cercare la compagnia di un uomo, Mahin avvicina l’anziano tassista Faramarz, ex soldato anche lui destinato a restare solo, e con gentilezza lo invita da lei per passare una serata insieme. L’incontro inaspettato si trasformerà per entrambi in qualcosa d’indimenticabile.

La protagonista Mahin (l’intensa Lily Farhadpour), non più giovane ma ancora viva, è tenuta al suo posto di donna sola e reticente dalle regole più o meno scritte della società islamica e piccolo borghese a cui appartiene. Lo dimostrano l’hijab che è costretta a indossare (ricordando invece i tacchi alti e le scollature del mondo pre-rivoluzione), le sbrigative conversazioni al telefono con la figlia, i dialoghi con l’amica ipocondriaca, la condiscendenza degli uomini al ristorante, la curiosità della vicina impicciona che ha sentito una voce maschile nel suo appartamento…

Significativamente, la voglia di riprendere a vivere, di cercare la compagnia di un uomo e combattere la solitudine, per la donna passa attraverso la rivendicazione della sua esistenza e della sua figura nel mondo esteriore: come quando, nell’unico momento esplicitamente militante del film, si oppone all’arresto da parte della polizia morale di una ragazza rea di non indossare correttamente il velo. «Fatti sentire», dice Mahin alla giovane dopo averla salvata, «più tu accetti il loro potere, più loro ti schiacceranno».

Riconducibile in apparenza a una dimensione privata, la scelta di Mahin di invitare un uomo in casa sua e spendere con lui (il dolce Faramarz, interpretato da Esmail Mehrabi) la serata più bella delle rispettive vite, ha in realtà un contenuto chiaramente politico: Mahin e Faramarz si chiudono al mondo, nello splendido giardino della donna, e lì vivono la loro libertà fatta di vino illegale, balli e, forse, una torta alla crema, contro ogni forma d’intrusione del potere.

Le immagini confezionate dai due registi sono precise, il più delle volte fisse, altre volte invece mosse da lenti movimenti di camera; la luce è netta; i contrasti tra l’oscurità e la luce non creano il dramma ma illustrano al contrario il sottile mutamento del rapporto d’amicizia e forse d’amore fra i due protagonisti. A un certo punto, nella storia di Mahin e Faramarz, ogni cosa sembra pure avere un proprio posto nel mondo, una sua giustezza che dà senso alle cose. La sceneggiatura è del resto ricca di eco interne, di rime fra scene e parole che rimandano all’idea del passaggio e del cambiamento: dalla morte alla vita, dal passato al presente, dal dentro al fuori, dal sopra al sotto la terra. Ed è proprio lì, nel gioco di contrasti e passaggi poi bruscamente interrotto, che si gioca il destino di Mahin. Un destino beffardo, ingiusto, anche un po’ gratuito se lo si pensa in termini meramente narrativi, ma che abbraccia in pieno la visione critica dei due registi: come a dire che in Iran, in questo Iran ottuso e forse decadente, non c’è redenzione per nessuno, nemmeno per chi prova a essere libero, felice e innamorato almeno per una sera.


Un sapiente Guillaume Canet in un gioco
cinematografico riuscito.
 
Un film di Benoît Jacquot con Guillaume Canet, Charlotte Gainsbourg, Kamel Laadaili, Pauline Nyrls. Genere Drammatico Tratto dal romanzo “La morte di Belle” di Georges Simenon, amatissimo scrittore belga e celebre giallista tradotto in 47 lingue con 550 milioni di copie vendute in tutto il mondo.
 
Tratto da Giancarlo Zappoli – www.mymovies.it

Pierre e Cléa sono una coppia che non ha figli. Ospitano in casa loro Belle, la figlia di un’amica di lei che frequenta il liceo dove lui insegna matematica. Un mattino la ragazza viene trovata strangolata. L’omicidio è avvenuto mentre in casa c’era solo Pierre e i sospetti iniziano ad addensarsi su di lui che però riesce ad autodifendersi riuscendo anche a mantenere un buon autocontrollo. Un film ispirato a un romanzo di Simenon che incorpora tutto quello che la comunicazione del nostro tempo ha messo in campo.

Non lo fa solo narrativamente ma si è trovato anche a subire un corposo rinvio dell’uscita nelle sale a causa delle accuse di abusi sessuali piovute sul regista che spiegano la didascalia che la produzione ha imposto alla fine del film.

Per quanto riguarda l’opera in sé e la sua scrittura (sia in fase di sceneggiatura che di riprese) va rilevato come non ci si trovi davanti a una rilettura tradizionale di un romanzo simenoniano. Il prolifico autore belga infatti scrisse il libro in soli dieci giorni mentre si trovava nel Connecticut. La vicenda era ambientata negli Stati Uniti ed aveva un finale molto diverso. Jacquot vi ha trovato materia per spostare l’azione in una città di provincia dove tutti si conoscono, ha conservato al protagonista il ruolo di insegnante (al Liceo Georges Simenon) ma soprattutto ha innervato l’operazione di trasferimento nella contemporaneità facendo ampio riferimento ai media e ai social. Perché la morte di Belle diventa un argomento di cui si dibatte in rete e quanto si trova nel suo cellulare favorisce l’alimentazione dei sospetti su Pierre. Il personaggio viene affidato alle sapienti cure interpretative di Guillaume Canet il quale sa offrirgli la giusta dose di ambiguità costringendo lo spettatore a chiedersi, sulla base degli elementi che gli vengono messi a disposizione, da che parte stare. Credere all’autoproclamata innocenza di un uomo che viene comunque presentato come complesso oppure propendere, come fanno alcune persone che pure stanno dalla sua parte, per ritenere la sua posizione come insostenibile? Il gioco è cinematograficamente riuscito e la scelta di Charlotte Gainsbourg nel ruolo di Cléa è funzionale alla creazione di un clima in cui fiducia e dubbio possono ambiguamente convivere. La stessa scelta di una donna (a differenza di quanto accadeva nel romanzo) nel ruolo del magistrato che interroga Pierre favorisce una lettura legata al potere di seduzione del protagonista che verrà utilizzata in favore di un’ulteriore complessità del plot. Viene così da pensare che a Simenon, nonostante le variazioni, questo film sarebbe piaciuto.


Un dramma giocoso, solare e morale che risplende di vita senza lasciare spazio alla disperazione.
 
Un film di Robert Guédiguian con Ariane Ascaride, Jean-Pierre Darroussin, Gérard Meylan, Grégoire Leprince-Ringuet. Genere Commedia durata 101 minuti.
 
Una badante ruba i soldi ai suoi assistiti per aiutare il nipote. Quando viene scoperta si genererà il caos.
 
Tratto da Marzia Gandolfi – www.mymovies.it

Maria ama le ostriche, la musica classica e il suo nipotino, che dimostra un talento precoce per il pianoforte. Decisa a farne un pianista ad ogni costo, ha noleggiato un piano verticale e assoldato il maestro migliore di Marsiglia per dargli lezioni private. Ma Maria non ha i mezzi per sostenere queste spese e come la “gazza” di Rossini ruba la vita che luccica e fa la cresta sulla spesa dei suoi clienti, persone anziane di cui si occupa amorevolmente. La devozione la spinge però un po’ troppo lontana, firmando assegni che non potrà restituire. Un accidente scopre il suo gioco ma sotto il sole di L’Estaque qualcuno la ama e la solleva dai guai.All’estremo nord di Marsiglia, in riva al mare, sorge come un sole il villaggio di L’Estaque, oggi 16° arrondissement della città.

Fermamente intenzionato a non lasciare spazio alla disperazione, l’autore raddrizza la barra e dona a ‘La gazza ladra’ la forma, affatto patetica o funerea, di una cronaca ordinaria che si sposta da un luogo e da una situazione all’altra, da un problema alla sua risoluzione. Una sorta di sfarfallamento della narrazione che svolge una sitcom marsigliese o addirittura un ‘dramma giocoso’ come quello rossiniano, mescolando elementi drammatici e buffi con esiti lieti.Il cuore della storia è sempre Ariane Ascaride, nonna affettuosa e ‘attivista’ del quotidiano, eroina e compagna, musa e icona popolare che è stanca della fatica ma non smette di praticarla per godersi un piatto di ostriche e sognare il nipote concertista dentro un abito di gala.

Il film assume volentieri il puro artificio e la scrittura tagliente che gli conferisce quell’aria da opera (quella del titolo) dove la ‘condannata’ viene sottratta in extremis alla ‘pena capitale’. Questo approccio apertamente svagato sfiora il carosello poetico e dimostra una volta ancora che il capitalismo e il ‘ciascuno per sé’ non hanno avuto la meglio sull’ottimismo dell’autore.Coerente, morale e solare, ‘La gazza ladra’ risplende di vita, di note, è pieno di cose familiari e di rotture di tono, mentre assistiamo all’eterna ridistribuzione delle carte tra gli stessi giocatori e all’aggiornamento di una cronaca, di uno sguardo. Circondato dai suoi indefettibili alleati, Guédiguian realizza un film su la forza dei legami, ripetendo che la lotta non è mai vana se è preziosa per qualcuno e si combatte per chi è prezioso al cuore. Robert Guédiguian sceglie la luce, in senso letterale e figurato. Il sole di Marsiglia magnifica e sembra stilizzare i suoi personaggi, che riposano su una complicità instaurata nel tempo con lo spettatore a colpi di umanesimo, cultura, solidarietà e tanta consolazione. Un solido programma di educazione popolare


Un film dall’ottimo cast. Capace di scaldare il cuore degli spettatori.
 
Un film di Antonio Padovan con Francesco Centorame, Pierpaolo Spollon, Ludovica Martino, Paola Buratto. Genere Commedia durata 90 minuti.
 
Il valore dell’amicizia in una commedia che racconta di una famiglia speciale.
 
Tratto da  Paola Casella – www.mymovies.it

Melissa e Sabrina sono migliori amiche fin dall’infanzia. Condividono tutto da sempre, e neanche a farlo apposta le gravidanze del loro primo figlio avvengono nello stesso periodo, e le nascite dei due maschietti praticamente nello stesso momento. Purtroppo però le due giovani donne sono insieme anche nel finire vittime di un incidente stradale, e i loro mariti Giorgio e Alessandro si ritrovano soli con i neonati Samuele e Michele. Dopo qualche mese di battaglia individuale fra notti insonni e montagne di pannolini i due decidono di condividere l’appartamento di Alessandro insieme ai rispettivi figli: dunque Samuele e Michele crescono insieme ai loro papà e affrontano i primi quattro anni di vita come una insolita ma armoniosa famiglia. Quando però Noelle entra nella vita di Giorgio e, a differenza delle avventure casuali di Alessandro, prospetta per lui un cambiamento di vita, i due papà dovranno capire qual è la differenza fra condivisione e co-dipendenza. Il regista veneto Antonio Padovan sceglie un soggetto e una sceneggiatura di Martino Coli per portare in scena la storia tenera di ‘Come fratelli’.

Un film che può contare su una regia solida, un’ambientazione rasserenante (principalmente la città di Treviso, ma con puntate anche nei comuni limitrofi) e soprattutto un cast di attori capaci, a cominciare da Francesco Centorame e Pierpaolo Spollon nei panni di Giorgio e Alessandro, per proseguire con Ludovica Martino in quelli di Noelle e Mariana Lancellotti e Paola Buratto nei ruoli (brevi per cause di forza maggiore) di Melissa e Sabrina. Ma la vera sorpresa in tema di recitazione sono i bambini che interpretano Michele e Samuele a quattro anni, rispettivamente Giacomo Padovan e soprattutto l’irresistibile Noah Signorello. Fanno loro da appropriato contorno i cammei di Roberto Citran, Giuseppe Battiston e Alessio Praticò. ‘Come fratelli’ si lascia seguire piacevolmente e mostra le corde recitative soprattutto di Centorame, nonché il lavoro di squadra dell’intero cast e del regista che riesce a creare un’atmosfera di intimità, di leggerezza e di allegria (a dispetto delle circostanze) che scalderanno il cuore degli spettatori.


Quello che ci aspettiamo dal miglior Ozpetek, quello che ama le donne e che rappresenta l’umanità.
Un film di Ferzan Ozpetek con Luisa Ranieri, Jasmine Trinca, Stefano Accorsi, Luca Barbarossa (II), Sara Bosi. Genere Commedia durata 135 minuti.
Il quindicesimo film i Ozpetek, con uno straordinario cast che ha tra le protagoniste ben 18 attrici italiane.
 
Tratto da: Paola Casella – www.mymovies.it

Fine anni ’70. Alberta e Gabriella Canova sovrintendono una grande sartoria specializzata in costumi per il cinema e il teatro: un microcosmo tutto al femminile del quale fanno parte la capo sarta Nina, che ha un figlio hikikomori ante litteram, la ricamatrice Eleonora, vedova con una nipote ribelle, Beatrice, la tingitrice Carlotta, la modista Paolina con un figlio piccolo che si nasconde nella stanza dei bottoni (quelli per gli abiti, non quelli del Pentagono), le sarte Nicoletta, malmenata picchiata dal marito Bruno, e Fausta, single ironica e “allupata”, più l’ultima arrivata, la giovane stagista Giuseppina. La cuoca del palazzo che ospita la sartoria è l’ex ballerina Silvana che ha una parola di conforto, e un pasto abbondante, per tutti. Quando la costumista premio Oscar Bianca Vega commissiona alla sartoria Canova i costumi per il suo prossimo film le lavoratrici si buttano a capofitto nell’impresa, avendo cura di non fare mai incontrare la regina del teatro Alida con la nuova promessa del cinema Sofia. Vicino ad Alberta e Gabriella c’è la zia Olga, sorella di una madre scomparsa troppo presto ma ancora ben viva nei cuori delle figlie, come lo è la mamma di Ferzan Ozpetek nel suo. ‘Diamanti’ si apre e chiude con una di quelle tavolate che sono diventate un simbolo del cinema, e del modo di intendere la vita, di Ozpetek. Intorno al desco di apertura siedono le attrici del film e lo stesso regista, intento ad annunciare loro le sue intenzioni e ad assegnare i ruoli. “Ci saranno in tutto quattro uomini”, annuncia fieramente: e di fatto i personaggi maschili nel film sono meramente di contorno. Più che al Pedro Almodovar cui all’inizio della carriera veniva paragonato, Ozpetek richiama qui il Francois Ozon di ”Otto donne e un mistero”, dove gli uomini sparivano completamente (uno per mano di una delle protagoniste).  ‘Diamanti’ è esattamente quello che ci aspettiamo dal miglior Ozpetek, quello che ama in modo incondizionato le sue donne, e viene da loro ricambiato con fiducia e generosità. Le donne che popolano la sartoria Canova possono litigare, insultarsi e prendersi in giro ma non si pugnalano alle spalle. Questo senso di “sorellanza” è incarnato al sommo grado dalle due protagoniste, legate tanto dall’affetto quanto da ricordi dolorosi che affrontano in modo speculare e contrario: Alberta passandoci sopra come uno schiacciasassi, Gabriella schivandoli accuratamente. Luisa Ranieri e Jasmine Trinca interiorizzano completamente i rispettivi ruoli, acquisendo fisicamente l’una una durezza programmatica, l’altra una negazione di sé che sfiora l’annullamento (mai le occhiaie di Trinca sono risultate tanto simboliche). Ozpetek però continua a comunicare primariamente attraverso i volti e gli sguardi: fra sorelle, fra amanti, fra genitori e figli, fra i bambini e il mondo. Sono sguardi pinei di passione e di paura, sofferenza e sollievo. Tutto il cast corale è in forma smagliante, e svettano Mara Venier nei panni dimessi di Silvana, Milena Mancini in quelli di Nicoletta e Milena Vukotic nel ruolo della zia Olga. Ma è una gara di bravura e Lunetta Savino, Paola Minaccioni e Geppi Cucciari gestiscono le parentesi comiche alleggerendo una trama che talvolta vira al melò. Vanessa Scalera è come sempre potente nel ruolo di Bianca Vega, che comanda le donne ma si lascia intimidire davanti all’unico uomo (Stefano Accorsi, nei panni del regista del film per cui Vega crea i costumi). Ozpetek compare occasionalmente fra le sue attrici, a ricordarci metacinematograficamente che questa è una messinscena polifonica. E a proposito di suoni, ‘Diamanti’ gestisce bene l’alternanza fra le musiche originali di Giuliano Taviani e Carmelo Travia, le canzoni di Mina e certi silenzi che arrivano improvvisi a zittire la scena. Il montaggio di Pietro Morana non indugia, se non sui tipici primissimi piani del regista. Il pubblico seguirà con partecipazione questa storia al femminile, che tuttavia non dimentica di rappresentare l’umanità.


Una commedia nera profondamente cinica. Con un cast di tutto rispetto.
Un film di Giovanni Dota con Carlo Buccirosso, Lino Musella, Nando Paone, Yari Gugliucci, Vittorio Ciorcalo. Genere Commedia durata 84 minuti.
 
Due infermieri cinici e annoiati rompono la monotonia degli interminabili turni notturni scommettendo sulla resistenza di un anziano paziente.
 
Tratto da: Claudia Catalli – www.mymovies.it

Angelo e Salvatore, due infermieri del Santi Martiri di Napoli, condividono tutto. Il lavoro in corsia, i racconti delle vacanze, persino il vizio delle scommesse. Quando la notte di Ferragosto arriva un paziente in coma, l’ottantenne signor Caputo, i due scommettono sulla sua vita. In palio ci sono 200 euro e una settimana di ferie tra Natale e Capodanno. Per vincere la scommessa i due infermieri faranno qualsiasi cosa, comprese pratiche decisamente poco deontologiche e passibili di denuncia penale. È una commedia nera profondamente cinica, il nuovo film firmato da Giovanni Dota. Protagonisti assoluti dal primo all’ultimo minuto gli ottimi Carlo Buccirosso e Lino Musella, nei panni di due infermieri che portano avanti le incombenze quotidiane come possono e si raccontano nel mentre le proprie vite. Uno è sposato (sua moglie è interpretata da Iaia Forte), ma si concede qualche scappatella in corsia, l’altro è appena tornato da una vacanza a Ibiza con la mamma. Hanno un vizio in comune: la febbre per la scommessa, per cui arrivano a rischiare qualsiasi cosa. La narrazione procede per crescendo dalla stipula della scommessa in poi, all’arrivo del moribondo di turno su una barella. Un crescendo di iettature, dispetti, congetture e tentazioni omicide innalza il livello di cinismo della commedia, che vorrebbe essere graffiante e amara come quelle a cui ci ha abituato il cinema italiano d’annata. Senz’altro valida l’intenzione di raccontare con feroce ironia uno spaccato troppo spesso edulcorato al cinema come in televisione, vale a dire il variegato microcosmo umano degli ospedali e in particolare di chi ci lavora, con turni massacranti, pochissimi mezzi e ancora meno soddisfazioni. Perché in certe notti gli ospedali diventano terre di nessuno, dove il confine tra legittimo e illegale è assolutamente labile e rischia di confondersi e far confondere. L’aspetto più interessante del film sta proprio in questa sua marcata volontà di mettere sullo stesso piano eroi e antieroi, i cattivi della storia sono proprio i buoni che sacrificano ogni loro giornata dedicandosi ai pazienti delle corsie. C’è poco da ridere,  e molto da approfondire, soprattutto sulla coltre di insoddisfazione e frustrazione che avvolge chi lavora in ambiti complicati e troppo spesso lasciati in balia di se stessi, come la famigerata sanità pubblica


Due fratelli divisi dalla vita scoprono l’esistenza l’uno dell’altro e imparano a volersi bene attraverso la musica.
Un film di Emmanuel Courcol con Benjamin Lavernhe, Pierre Lottin, Sarah Suco, Jacques Bonnaffé, Clémence Massart-Weit. Genere Commedia durata 103 minuti.
Un uomo, per salvarsi la vita, dovrà andare a conoscere il suo fratello biologico.
 
Tratto da: Roberto Manassero – www.mymovies.it

Celebre direttore d’orchestra, il quarantenne Thibaut scopre di essere malato di leucemia e di avere bisogno di un donatore di midollo osseo. Facendo indagini sulla compatibilità dei familiari viene a sapere di essere stato adottato e di avere un fratello di sangue,Jimmy, più giovane e proveniente dal nord della Francia. Diversi per carattere edestrazione sociale, i due impareranno a conoscersi e a volersi bene, uniti dalla passioneper la musica. E quando Thibaut scopre che Jimmy ha l’orecchio assoluto, lo spinge adiventare il direttore della banda musicale nella quale suona il trombone… Una commedia drammatica semplice ed efficace, che mescola con abilità lacrima e risata,melodramma e realismo sociale. La dote principale del cinema francese – quando scritto, recitato, confezionato conimpeccabile abilità come nel caso di En fanfare – è quella di saper gestire con apparentenaturalezza elementi eterogenei. Emmanuel Courcol, in passato autore dell’ottimo’Weekend’, parte dal dramma medico, passa alla vicenda famigliare dell’incontro tra i duefratelli adottati, poi allo scontro sociale fra i due protagonisti (uno borghese, l’altroproletario, uno realizzato, l’altro fallito) e infine arriva addirittura al racconto militante esociale, con l’accenno alla crisi economica del nord e alle proteste operaie per la chiusuradelle fabbriche… A fare da trait-d’union è naturalmente la musica, anch’essa connotata inmodo duplice, raffinata e orchestrale nel caso di Thibaut, immediata e grezza, da fanfaraper l’appunto, in quello di Jimmy, ma capace di avvicinare i due fratelli. Grazie anche all’opposta, perfetta interpretazione di Benjamin Lavernhe (Thibaut) e Pierre Lottin (Jimmy), il primo sensibile e un po’ supponente nella scoperta di un mondo infinitamente distante dal suo, il secondo istintivo e umorale, desideroso di riscatto ma troppo orgoglioso per ammetterlo, il film alterna vari registri senza perdere il controllo della materia. Mai patetico o all’opposto manipolatorio (nonostante ci siano tutti gli elementi del caso, dalla relazione di Jimmy con una collega alla simpatia di un ragazzo down membro dell’orchestra), ‘En fanfare’ dimostra limiti proprio in una scrittura fin troppo controllata. Le tante deviazioni della trama aiutano a evitare la trappola del risaputo (a un certo punto, ad esempio, il film potrebbe diventare una sorta di nuovo ‘Grazie, Signora Thatcher’…), ma rischiano anche di trasformare molti passaggi in piste narrative vuote: eppure Courcol sa giocare di dettagli, crea piccole, splendide scene rivelatrici (il furto della foto della madre inuna palestra, l’incontro con la figlia di Jimmy, il ruolo della sorella acquisita di Thibaut…) e dà al suo film un passo da cinema popolare che arriva con naturalezza al finale corale, in cui le opposte idee di musica rappresentate dall’orchestra e dalla banda trovano un terreno d’intesa nel ritmo travolgente del Bolero di Ravel. A quel punto gli argini dello spettatore di fronte al fiume di lacrime sono già crollati, e ci si può abbandonare al pianto liberatorio, sapendo bene che per uno spettatore a volte non c’è niente di più bello, e per un regista niente di più facile da costruire. Bastano – si fa per dire – un pugno d’attori in stato di grazia, una scrittura attenta, una regia invisibile, una musica indimenticabile..


Auteuil sceglie con orgoglio uno stile vecchia scuola innestandosi nella tradizione della narrazione processuale.
Un film di Daniel Auteuil con Daniel Auteuil, Grégory Gadebois, Sidse Babett Knudsen, Alice Belaïdi, Suliane Brahim
Genere Drammatico durata 115 minuti.
Un uomo viene accusato di aver ucciso la moglie e un avvocato ha l’arduo compito di difenderlo in tribunale.
 
Tratto da:Tommaso Tocci – www.mymovies.i

Jean Monier è un avvocato di lungo corso, ma scottato dall’esperienza con l’ultimo cliente che ha difeso. Dopo qualche anno di assenza dai tribunali, per fare un favore alla moglie-collega, si trova a rappresentare un padre di famiglia in stato di fermo e accusato di aver ucciso la consorte. Sarà l’inizio di un caso che durerà anni, arrivando fino al processo, e che vedrà Jean approfondire il legame con Nicolas, uomo mite che giura di essere innocente e di non aver mai voluto fare del male a sua moglie. Tanto prolifico e apprezzato come volto attoriale, Daniel Auteuil è spesso meno riconosciuto nella sua carriera di regista, nonostante con Le fil arrivi al quinto film dietro la macchina da presa e lavorando sempre anche alle sceneggiature. Sarà perché i primi tre erano così legati agli adattamenti della produzione teatrale di Marcel Pagnol, ma ora Auteuil cerca qualcosa di diverso; guarda infatti alla cronaca giudiziaria, traducendo per il grande schermo una delle storie vere pubblicate dall’avvocato Jean-Yves Moyart.Il cambiamento più forte è nello spostare l’ambientazione dal nord della Francia al sud che Auteuil conosce bene, essendoci cresciuto. Un sud atipico, tra le paludi e i tori della Camarga, attraverso cui il regista “si appropria” di questa storia che confina con il polar, tutta vissuta dal punto di vista dell’avvocato protagonista, e incentrata sul rapporto tra l’imputato e il suo rappresentante.Rapporto fatto di fiducia e confidenza, perfino di affetto, ma che può muoversi esclusivamente entro i limiti della sincerità reciproca. Da regista concreto e pragmatico nel ritagliarsi un ruolo ricco – di ascolto, reazione, oratoria – Auteuil sceglie poi un volto intrigante con cui dialogare: quello di Grégory Gadebois, prolifico caratterista bravo a incarnare la mite indecifrabilità di Nicolas.Il suo è il ruolo chiave in un’opera che fin dal titolo gioca con la percepita linearità della vicenda e con le aspettative del pubblico. La sfida è rendere particolare un caso che all’apparenza sembra generico, con l’orgoglio di uno stile certamente “vecchia scuola” e dotato di solida caparbietà. Risultato raggiunto, che diventa ancor più interessante per come si posiziona in un’era di boom del genere “true crime” e soprattutto innestandosi in una rigogliosa tradizione francese della narrazione processuale. Un fenomeno che va ben al di là del cinema, e che per limitarsi al grande schermo ha prodotto negli ultimi anni titoli come ‘Saint Omer’, ‘Anatomia di una caduta’ e ‘Il processo Goldman’. Se quei film facevano dell’aula di tribunale un campo di ricerca per l’eccezionalità più ambigua, Auteuil risponde con l’idea che è nella dimensione del normale che si trova l’oscurità più spaventosa.


Un’opera importante che sceglie un approccio educativo per portare sul grande schermo il grande best seller internazionale.
Un film di Eran Riklis con Golshifteh Farahani, Zahra Amir Ebrahimi, Mina Kavani, Bahar Beihaghi, Isabella Nefar. Genere Drammatico durata 108
Il potere liberatorio della letteratura nell’Iran rivoluzionario.
 
Trattoda: Paola Casella – www.mymovies.it

Teheran, 1979: Azar Nafisi torna nel nativo Iran insieme al marito ingegnere Bijan dopo molti anni passati all’estero, piena di aspettative per il futuro del suo Paese a seguito della rivoluzione . La donna insegna letteratura inglese all’università e i suoi studenti, e soprattutto le sue studentesse, la considerano un modello di autonomia e indipendenza. Ma il 3 agosto 1979 l’ayatollah Khomeini instaura in Iran il Governo provvisorio islamico, imponendo la sharia come legge dello Stato: il che, per Azar, significa essere costretta a indossare l’hijab e vedere la lista di letture del suo corso censurata dalle autorità. I suoi studenti maschi la contestano, mentre le ragazze continuano ad appoggiarla.

Un giorno, durante una protesta studentesca, due alunne vengono arrestate e sottoposte a torture, scomparendo dalla circolazione. Azar abbandona l’insegnamento universitario e decide di creare un circolo di lettura per donne, al quale si iscrivono sette delle sue ex alunne. Leggeranno insieme i testi anglosassoni proibiti dall’ayatollah, e la loro storia sarà divisa in parti intitolate a quei libri condannati.

‘Leggere Lolita a Teheran’ è stato un best seller internazionale all’inizio degli anni Duemila e ha dettagliato per il mondo la privazione sistemica della libertà per le donne iraniane. Azir Nafisi l’ha pubblicato negli Stati Uniti, dove era rifugiata dal 1997, e ora il regista israeliano Eran Riklis ne ha tratto un film.

 ‘Leggere Lolita a Teheran’ ha certamente un valore educativo perché illustra nel dettaglio la perdita graduale della libertà, soprattutto delle donne, sotto un regime totalitario di matrice ideologica. Il messaggio è molto importante, soprattutto oggi che a combattere per Donna, Vita e Libertà sono le studentesse, per fortuna accompagnate anche da molti studenti maschi: dunque tutto ciò che si può fare per trasmetterlo è benvenuto e apprezzabile.


Una commedia romantica che parte con una buona dose di cinico realismo.
Ottimi gli interpreti.
 
Un film di Riccardo Antonaroli con Pilar Fogliati, Filippo Scicchitano, Valeria Bilello, Giorgio Tirabassi. Genere Commedia durata 85 minuti.
Una brillante commedia dolce amara con Pilar Fogliati e Filippo Scicchitano.
 
Tratto da : Claudia Catalli – www.mymovies.it

Eleonora e Valerio sono una coppia di neosposi. Lei fa l’osteopata, lui l’ agente immobiliare. Si sono appena sposati e già sono stanchi di una serie di cose. È la loro prima notte di nozze, ma tutto andrà storto, e la famosa “Love Suite” che ha ospitato star e starlette di tutto il mondo dovrà attendere. Le cose si complicano quando lei trova un biglietto segreto nelle tasche di lui, con tanto di anello dell’ex fidanzata. Seguirà una notte di litigi, fughe, riappacificazioni, ricerche, nuovi e vecchi incontri, parenti intrusivi e alla fine, verso l’alba, l’ipotesi di un per sempre ancora tutto da vivere.

La base dichiarata del film di Riccardo Antonaroli è l’israeliano ‘Honeymood’ di Talya Lavie e l’intento era firmare una commedia esistenziale sul matrimonio. Più o meno romantica, più o meno divertente, parte con grande convizione e con una buona dose di cinico realismo. I neosposi sono già stanchi, la giornata è stata lunga, tra freccette e battutine si recriminano a vicenda gli sguardi e le chiacchierate con i rispettivi ex. Così dentro alla famigerata “Love Suite” che, ci tiene a ribadire (con troppa insistenza) l’inserviente dell’hotel in cui alloggiano, ha ospitato i più grandi divi e divetti del mondo, la guerra vincerà sull’amore, con la deflagrazione di una bugia testimoniata da un foglio e un anello. Da lì parte una folle notte di litigate, fughe e incontri con una serie di personaggi anche improbabili.

Pilar Fogliati e Filippo Scicchitano risultano naturali e credibili in tutta la loro giostra di emozioni, dalle più positive alle più negative. Sono bravi, anche quando sono chiamati a recitare battute non propriamente memorabili, dando l’impressione di aver saputo costruire una buona alchimia tra loro. Giorgio Tirabassi e Lucia Ocone spiccano sul resto del cast, tanto sono divertenti nei panni dei genitori ebrei di lui, ancora “innamorati” della sua ex e diffidenti verso la neonuora non ebrea.

Due personaggi più che umani e a tratti esilaranti, che avrebbero meritato molto più spazio, anche per l’ironia bonariamente diffusa su temi enormi come famiglia e religione . Già memorabile – più per l’intensità della performance che per la scrittura – il monologo di Tirabassi sul matrimonio e sull’urgenza di condividere un sogno insieme, quale che sia, per sopportare meglio la fatica di tutti i giorni. All’alba l’ipotesi di un per sempre da costruire giorno per giorno, e dunque di una svolta narrativa sul viale della maturità dei neoconiugi protagonisti, viene smontato dall’ennesima bugia scoperta, a riprova che certi uomini resteranno inguaribili bugiardi e certe donne destinate ad amarli per come sono.



Un road-movie tenero e dolente che è anche un confronto generazionale.
 
Un film di Gianni De Blasi con Diego Abatantuono, Biagio Venditti, Marit Nissen, Roberta Mattei, Luciano Scarpa. Genere Commedia durata 90 minuti.
Un viaggio di nonno e nipote che cambierà la loro vita per sempre.
 
Tratto da : Claudia Catalli – www.mymovies.it

Pietro e Mattia sono nonno e nipote. Il primo è un ex scrittore di successo in depressione, che il giorno del suo compleanno sta per suicidarsi. D’un tratto riceve una telefonata inattesa e apprende la più terribile delle notizie. Riguarda sua figlia e suo genero. Mattia è un ragazzo sensibile, che conosce poco suo nonno, eppure sarà lui a dargli la triste notizia. Il futuro appare più nero che mai, ma è tutto da capire: a chi verrà affidato Mattia? Per rispondere a questa domanda, farà un viaggio con il nonno, insieme doloroso, divertente e fondamentale per entrambi. È un film profondamente tenero, L’ultima settimana di settembre, con dolenti punte di amarezza difficilmente dimenticabili. Lo si intuisce dalla prima scena, con Diego Abatantuono intento a ingurgitare pillole per suicidarsi. Interpreta Pietro Rinaldi, ex scrittore di successo rimasto vedovo che si è stancato di vivere. La telefonata che nessun genitore vorrebbe ricevere paradossalmente lo salva, catapultandolo suo malgrado nella vita dello sconosciuto nipote Mattia. La fine diventa un nuovo inizio nel costante confronto di due generazioni diverse in quello che diventa presto un “on the road” sentimentale su un’auto d’epoca. È il primo lungometraggio che firma Gianni de Blasi, tratto dall’omonimo romanzo di Lorenzo Licalzi trasposto sullo schermo dallo stesso regista insieme a Pippo Mezzapesa e Antonella Gaeta. Un viaggio soprattutto interiore, emotivo, pervaso di tristezza, eppure mai privo di ironia, il cui tono si staziona sull’agrodolce delle emozioni trattenute e delle parole mancate. Nonno e nipote non si conoscono, la loro convivenza è forzata, per diventare ricercata c’è bisogno di un progressivo quanto lento avvicinamento. In questo la scrittura mostra grande sobrietà, misura e morbidezza, mettendo in fila le piccole mosse di ogni giorno capaci di costruire la forza mai scontata di un legame. Il tema dell’elaborazione del lutto è sviluppato rispettando e rispecchiando i tempi dei singoli personaggi, di cui colpiscono i silenzi complici, le attese seduti anche a non dirsi niente, un modo realistico per descrivere la condivisione (im)possibile di un indicibile dolore personale. Il resto lo fanno i suggestivi paesaggi pugliesi e ovviamente gli attori, convincenti e con un’alchimia evidente, capace di valicare lo schermo. Non a caso alcuni dei dialoghi più riusciti tra i due attori sono improvvisati. Alla credibilità di Biagio Venditti, nei panni dell’adolescente Mattia, si affianca l’asso attoriale Abatantuono, piacevolmente più dolente e “contenuto” del solito. Si cala nei panni del cinico ex scrittore stanco della mediocrità che lo circonda e allergico ai sentimentalismi, ma anche a chi vende i suoi libri a un euro. Un personaggio a cui è facile affezionarsi: multistratificato, tutt’altro che convenzionale o compiacente, un nonno sui generis dalla battuta pronta che ha smesso di scrivere perché ha smesso di vivere. Si sta lasciando vivere suo malgrado, portando avanti la sua interminabile quanto esilarante lista degli odiati, categoria più ampia che mai e pullulante di gattare, maschiliste, femministi e autostoppisti. Grazie a lui e alle sue trovate umoristiche la cupezza narrativa dell’inizio si stempera con le avventure del viaggio, in cui subentrano una serie di personaggi. Uno spiraglio di leggerezza si intravede e finisce quasi per far commuovere lo spettatore senza retorica (ma anche senza trovate clamorosamente inedite o originali), abbracciandolo in un dolce e caldo lieto fine.


Eastwood non smette di cercare la verità, la guarda in faccia e dirige un’ode al ragionevole dubbio.
 
Un film di Clint Eastwood con Nicholas Hoult, Toni Collette, J.K. Simmons, Kiefer Sutherland, Leslie Bibb. Genere Drammatico durata 114 minuti.
L’ultimo film della prolifica carriera di Clint Eastwood.
 
Tratto da:  Marzia Gandolfi – www.mymovies.it

Justin Kemp, giovane uomo con un passato alcolico e un futuro da papà – la moglie aspetta la loro bambina -, è convocato come giurato in un sordido caso di omicidio alle porte di Savannah, in Georgia. La vittima, Kendall Carter, è stata presumibilmente picchiata a morte e abbandonata in un fosso dopo una violenta discussione col suo ragazzo, membro pentito di una gang di quartiere. Il colpevole ideale per i dodici giurati e per il procuratore della contea in piena campagna elettorale. Faith Killebrew espone i fatti e la vertigine sale. Justin, giurato numero 2, realizza progressivamente la propria colpevolezza nella tragedia avvenuta un anno prima, nel cuore della notte, sulla stessa strada dove si era convinto di aver investito un cervo. Sotto una pioggia battente di ricordi, il marito perfetto si scopre omicida involontario e si ritrova difronte a un dilemma morale: confessare, scagionando l’imputato, o sottrarsi alla giustizia, condannando un innocente? La prima inquadratura è magnifica. Dopo i titoli di testa, che mostrano un’immagine di Themis, la dea della giustizia bendata con bilancia in una mano e glave nell’altra, osserviamo il volto di un’altra donna anche lei con la benda sugli occhi. È la moglie di Justin Kemp in procinto di scoprire la ‘camera del figlio’, che il marito ha allestito per farle una sorpresa. ‘Giurato numero 2’ gioca costantemente col motivo del visibile e dell’invisibile, dell’evidente e del nascosto: la sposa bendata, il protagonista abbacinato dal temporale, il testimone confuso dalla distanza, il pubblico ministero ‘accecato’ dalla carriera… L’autore passa il tempo a evidenziare i punti ciechi, quello che i personaggi non vedono o non vogliono vedere. Ma è tutto lì, in piena luce. Così mentre tutti i giurati sono convinti della colpevolezza dell’accusato, Justin, roso dalla colpa, guadagna tempo e prova a convincere chi vuole soltanto chiudere rapidamente. Manca un minuto a mezzanotte ‘nel giardino del bene e del male’, la giustizia ha fatto il suo lavoro e alla fine anche la polizia, sotto l’egida di un poliziotto in pensione, allontanato dal processo perché ha trasgredito le regole dell’imparzialità nel suo ruolo di giurato. Il personaggio incarnato da J. K. Simmons ci ricorda che siamo in un film di Clint Eastwood e che da ‘Dirty Harry’ in poi, il poliziotto rimane soggetto dell’eccezione, sempre ‘oltre il limite’ per le regole dell’istituzione. Ma esce presto di campo, è un mediatore evanescente. Resta ‘il giurato numero 2′, quello che conosce la fine della storia e arriva in fondo a questa storia, in cui l’appello all’imparzialità della giustizia dimostra tutta la sua astrazione.  Ma come la sua procuratrice, bussola morale del film, Eastwood non smette di cercare la verità per guardarla in faccia in una sequenza finale sospesa che suona come l’ultima ingiunzione aperta di un autore che non ha più nulla da dimostrare. Perdonato da chi gli è più vicino, Justin è comunque l”unforgiven’ a cui la giustizia presenta il conto e nessuna redenzione. Forse è questo il testamento di Eastwood, essere sempre stato dove non te lo aspetti: dietro la porta che si apre sul mistero insondabile della coscienza umana, dentro un epilogo che si gioca sui soli volti di un attore e di un’attrice, nella conclusione (?) struggente di una filmografia che non ha mai smesso di guardarsi in faccia. In un Paese in cui la verità (fattuale) viene denigrata o totalmente ignorata, Clint Eastwood prende una posizione indispensabile.


Un’opera sul femminismo prima ancora che un biopic. Si sente tutta la passione e la sincerità della regista.
 n film di Léa Todorov con Jasmine Trinca, Leïla Bekhti, Rafaelle Sonneville-Caby, Raffaele Esposito (II). Genere Biografico durata 100 minuti.
 
Lili d’Alengy, cortigiana con una figlia disabile, incontra Maria Montessori e insieme uniscono le forze per creare un luogo accogliente per i bambini più in difficoltà.
 
Tratto da ; Tommaso Tocci – www.mymovies

Cortigiana di successo, Lili d’Alengy è sicura del suo valore sociale e tiene in pugno la fervente Parigi del 1900. All’improvviso, però, dall’esilio parentale riemerge la figlia che Lili si vergogna di avere: una bambina disabile di nome Tina, la cui esistenza sarebbe inaccettabile per la buona società parigina. Lili scappa quindi a Roma, dove c’è un istituto che si dice possa prendere in cura bambini con difficoltà. Lì incontra Maria Montessori, che a sua volta ha un figlio “nascosto” nato fuori dal matrimonio in una relazione con il collega Giuseppe. Insieme, i due medici cercano di convincere le istituzioni che il loro metodo educativo sperimentale è in grado di recuperare alla società quei bambini “idioti” emarginati dal sistema.

Jasmine Trinca dona volto e profonda dignità alla figura di Maria Montessori nell’esordio alla finzione della regista francese Léa Todorov, che inquadra la famosa pedagogista all’inizio della carriera, divisa tra gli ideali del lavoro con i bambini e un rapporto complicato con la sua stessa maternità. Animato da un didascalismo sincero e meticoloso, il film giova della contrapposizione tra Montessori e il personaggio di Lili, vera protagonista e contraltare di Maria, che affidata alle mani sicure di Leïla Bekhti è chiamata ancora più apertamente a ripensare e rivendicare il ruolo di madre, in opposizione alle costrizioni sociali del tempo.È quindi un’opera sul femminismo prima ancora che sull’istruzione e sul trattamento della neurodiversità, perché – come dice Montessori stessa – un mondo più aperto alle donne metterebbe l’esperienza femminile e la maternità al centro di tutto. Lili e Maria sono due facce di un’unica medaglia nel modo in cui navigano il ruolo della donna all’alba di un nuovo secolo (il titolo originale è appunto ‘La nouvelle femme’) e hanno molto da insegnarsi reciprocamente: la prima più pragmatica e individualista, consapevole dell’importanza del “sapersi vendere”; la seconda più idealista, capace di aprire le porte alla compassione.Non è quindi un biopic ad ampio spettro, fermandosi molto presto nel percorso di Montessori, e utilizzandola saggiamente come un inserto nel suo stesso film. C’è però abbastanza del suo lavoro così pionieristico in quell’epoca, comprese diverse sequenze ben riuscite con attori bambini (tutti neuro-atipici) in cui Jasmine Trinca dà il meglio, prima di decidere di applicare il suo metodo d’insegnamento anche a chi non presenta disabilità. Per la regista, figlia di un gigante di filosofia e teoria della letteratura come Tzvetan Todorov, e con alle spalle già un documentario, è una buona transizione verso il cinema di finzione, girata con diligenza e senza fronzoli; occhi dritti verso l’obiettivo, verso il quale si sente tutta la sua passione e sincerità.


Tra presente e passato, Patricia Font ci mostra la passione per l’insegnamento. Donandoci un messaggio universalmente valido.
Un film di Patricia Font con Enric Auquer, Laia Costa, Luisa Gavasa, Ramón Agirre, Milo Taboada. Genere Biografico durata 105 minuti. Produzione Spagna 2023.
 
Una storia di coraggio, dedizione e resistenza che rischiava di rimanere sepolta dalle ombre del regime franchista.
 
 
Tratti da: Giancarlo Zappoli – www.mymovies.it

Antoni Benaiges è un maestro delle scuole elementari di origini catalane a cui viene assegnata una pluriclasse a Bañuelos de Bureba (Burgos). I suoi metodi di insegnamento innovativi e il fatto di non nascondere il proprio ateismo gli alienano le simpatie del parroco e del sindaco ma non quelle degli alunni che lo sentono vicino alle loro speranze e ai loro sogni. Uno dei quali è quello di poter vedere il mare.

Un film dallo straordinario successo in Spagna che ha un messaggio universalmente valido. Patricia Font dirige un film in continua alternanza tra il presente e il passato. Nel presente una nipote (già madre) va alla ricerca della sepoltura di colui che si prese cura del nonno quando era bambino, sperando di trovarlo in una delle purtroppo numerose fosse comuni risalenti alla guerra civile. Nel passato assistiamo alla vita e all’attività didattica di quella persona, un maestro che pagò con la vita il non conformarsi alle imposizioni del franchismo rampante. Questo duplice piano di narrazione è già di per sé significativo. Ci ricorda il dovere della memoria in un presente in cui il revisionismo storico si approfitta di amnesie collettive indotte dal flusso comunicativo in cui il fake prevale. Antoni Benaiges è davvero esistito e veramente ha promesso il mare a dei bambini che potevano solo immaginarlo. Quella promessa aderiva perfettamente al suo progetto didattico e pedagogico. Per comprendere meglio questo aspetto è bene ricordare che Benaiges applicava il ‘metodo naturale’ elaborato dal pedagogista Célestin Freinet che prevedeva una partecipazione costante da parte degli alunni, dettata dai propri bisogni, al processo di conoscenza. Freinet riteneva fondamentale l’utilizzo in classe della tipografia per favorire l’apprendimento della scrittura nell’ambito di una cooperazione degli allievi con il maestro e tra di loro. Ad uno spettatore odierno, abituato alla scrittura su computer, potranno sembrare metodologie preistoriche quelle che invece erano così innovative all’epoca da destare l’ostilità più bieca e cieca da parte della componente più retriva della società. Quasi tutti i quaderni stampati nella classe di Benaiges vennero bruciati pubblicamente perché realizzati nell’ambito di un processo di insegnamento considerato ‘sovversivo’. Font riesce a restituirci il clima di quell’epoca mostrandoci la passione per l’insegnamento di Antoni (i docenti che ne sono privi producono più danni che vantaggi per i propri allievi erodendo in loro il piacere dell’apprendere) e facendoci leggere sul volto dei suoi alunni, anche dei più restii, la gioia per ogni nuova scoperta. Ma, con il percorso compiuto da Ariana, la nipote in cerca del passato del nonno prima che costui lasci questa terra, ci ammonisce sulla vigilanza. Benaiges insegna e viene messo nel mirino mentre il franchismo sta covando sotto la cenere alimentandosi con le posizioni dei cosiddetti ‘benpensanti’. La Storia può ripetersi e certe lezioni andrebbero apprese affinché ciò non torni ad accadere.





Tratto da:Paola Casella – www.mymovies.it

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