All’alba del 1800, l’istituto religioso Sant’ignazio deve prepararsi a un evento storico: dal conclave veneziano emerge il nuovo Papa Pio VII, che per l’occasione visiterà tutte le chiese del Veneto e a Sant’ignazio presenzierà a un concerto organizzato per lui. A capo del coro composto da ragazze orfane cresciute nell’istituto c’è Perlina, il quale però è in crisi d’ispirazione e scarica la frustrazione sulle povere musiciste, oltre che sulla cameriera Teresa, una ragazza che non parla ma possiede un grande talento musicale. Con il concerto che si avvicina a grandi passi, saranno le giovani a prendere in mano il destino dell’istituto per proporre una musica decisamente poco classica. È un fulmine a ciel sereno questo esordio di Margherita Vicario, giovane attrice e cantante oltre che figlia d’arte. Cinema e musica fanno evidentemente parte del suo DNA, ma lascia comunque stupiti il livello del suo primo film, un travolgente “feel-good movie” dalla carica sovversiva che remixa il basso e l’alto, e il classico e il contemporaneo. Dietro i codici di un racconto consapevolmente popolare, che strizza l’occhio a un pubblico ampio, c’è l’intento di gettare luce su intere generazioni di donne che in quell’epoca venivano educate come musiciste di alto livello ma senza possibilità di affermarsi o di trovare un’espressione artistica propria. Talenti sacrificati al patriarcato e ai rigidi ranghi dell’organizzazione cattolica, e che la regista omaggia inventando un gruppo di ribelli che uniscono i loro strumenti per creare delle melodie “pop” in grado di scardinare le catene. Fin dalla prima sequenza, in cui la protagonista Teresa immagina una sinfonia ritmata fatta dei gesti quotidiani tra le pulizie in cortile, è evidente il brio scanzonato e ammiccante che anima il film, sempre sul punto di esplodere in un canto liberatorio e completamente anacronistico. Ma per cavalcare questa tensione ci vuole del coraggio autentico, lo stesso che serve alle cinque protagoniste per aprirsi l’una alle altre, in una serie di nottate al lume di candela attorno al prototipo di un nuovo, bellissimo pianoforte. Film fresco che cavalca l’onda di tempi che cambiano, come quella rivoluzione francese di cui si mormora a mensa e che pare porterà finalmente un po’ di liberté per tutte. Da questo punto di vista è apprezzabile il modo in cui si consuma la tanto attesa visita del papa, la cui autorità finisce per essere messa alla berlina pure lei. D’altra parte non può essere un caso, quando tutte le parti maschili principali sono affidate a comici d’altri tempi come Elio, Natalino Balasso e Paolo Rossi (quest’ultimo una scelta non banale in un ruolo corposo che ne beneficia molto). L’italo-francese Galatea Bellugi (in rampa di lancio dopo ‘La Passion de Dodin Bouffant’ e l’ottimo ‘Chien de la casse’) guida poi il gruppo delle protagoniste con luminosa determinazione, facendosi tutt’uno con la musica (con pezzi di Vicario stessa) e con il vivace sound design che coinvolge lo spettatore in un inno al potere collettivo della musica popolare.
Cole Davis è il direttore del programma di lancio dell’atteso viaggio sulla luna dell’Apollo 11. Kelly Jones è una spregiudicata esperta di marketing che viene assunta per promuovere l’impresa spaziale il più possibile, per fomentare il popolo americano a seguire con passione la missione e gli sponsor a investirvi. Nel mezzo c’è la politica del governo Nixon, determinata a mostrare al mondo – con ogni mezzo a disposizione, oltre l’etica – che l’America approderà sulla luna ben prima della Russia. Un film-caleidoscopio, con dentro commedia, love story, dramma, metacinema e una spruzzata di thriller politico. È tutto questo Fly me to the moon, creatura ibrida o complessa a seconda dei punti di vista, diretta da Greg Berlanti. Nelle duplici vesti di produttrice e protagonista spicca Scarlett Johansson, che nella prima parte del film conosciamo come Kelly Jones, venditrice spregiudicata, bugiarda e persuasiva dalle multiple identità, imbattibile nel suo lavoro. Un personaggio a metà tra Leonardo Di Caprio in ‘Prova a prendermi’ e Jennifer Lawrence in ‘Joy’. Il suo carisma e la sua furbizia vengono notate dai vertici della politica americana, tanto da venir avvicinata da un uomo del presidente (Woody Harrelson, nell’ennesima performance memorabile della sua carriera). Le fa la proposta delle proposte: lavorare per promuovere la missione sulla luna, trasformando in star gli astronauti e facendoli entrare nel cuore della gente. Dal momento in cui Kelly entra alla NASA e incontra Cole Davis, astronauta mancato a capo del programma di lancio, tutto cambia. La commedia sofisticata cede gradatamente il passo a una commedia romantica che si prende il suo tempo per partire, e parallelamente si aprono altre due strade narrative: il dramma della commemorazione della missione fallita Apollo 10, trauma da cui Davis stenta a riprendersi, e la costruzione a tavolino, o meglio in studio, del finto allunaggio. Una finzione voluta dai vertici della politica per rendere credibile l’incredibile e trasmettere al mondo, e all’elettorato americano, il prodigio della missione riuscita in diretta, anche qualora fosse nella realtà fallita. Un film enormemente ambizioso, che traccia tante, forse troppe, piste narrative con una regia non particolarmente efficace, che tuttavia riesce nell’intento di intrattenere, incuriosire, divertire, commuovere e far riflettere sulle manipolazioni multiple di una politica spregiudicata, decisa a calpestare ogni etica pur di mostrare al mondo intero la sua volontà di grandezza. Channing Tatum è credibile per quanto eccessivamente ingessato, Scarlett Johansson risulta perfettamente aderente al suo ruolo, tanto che è impossibile non affezionarsi al suo personaggio e agli incredibili escamotage pubblicitari inventati per “vendere” il sogno del viaggio sulla luna agli americani. Un’antieroina furbissima e scorretta, che solo nella seconda metà del film svela la sua vulnerabilità e il suo lato umano, utili in scrittura a non appiattirla su una silhouette solo caricaturale. Menzione speciale infine per il villain interpretato da Woody Harrelson, che riesce nell’impresa non scontata di far piacere al pubblico un personaggio sulla carta assolutamente detestabile.
Bruno è un professore in pensione rimasto vedovo che convive con il figlio trentenne e la sua compagna incinta. L’arrivo del nipotino lo costringe a liberare spazio nell’appartamento per lasciargli la sua camera da letto. Un giorno si presenta a casa sua un antiquario per valutare alcuni dei mobili, oggetti e libri a cui è legato ma che non può più tenere. Si tratta di Marcello, un suo vecchio amico che non vede dai tempi dell’università e che, da questo momento, cerca di aiutarlo in ogni modo per risolvere la situazione in cui si è venuto a trovare. Bruno però si sente inizialmente a disagio e spesso non risponde alle sue telefonate. Da questo nuovo incontro, tornano a galla piacevoli ricordi ma anche conflitti irrisolti a cui il professore vuole sottrarsi. Marcello però gli offre anche la soluzione per risolvere i suoi problemi di spazio portandoli nella sua casa di campagna. Parte da una fine, riprende da una rinascita. L’espressione iniziale di Bruno sembra spenta, rassegnata, mentre sta dando l’ultima ripetizione a uno studente che si sta preparando all’esame. Fuma e il suo sguardo è da un’altra parte. Sul volto di un ottimo Nello Mascia ci sono già tutti i segni di un passato di un film che scorre sul filo della memoria. Controcampo. Bruno balla il foxtrot con Donata, interpretata da Anna Ferruzzo, la vicina di casa di Marcello nella casa di campagna. Lì ritrova un’improvvisa vitalità che sembra aver perduto. La tartaruga segue gli umori dei protagonisti, i loro stati d’animo diversi dove al disincanto di Bruno si oppone invece l’entusiasmo e la generosità di Marcello, in cui la prova di Antonello Fassari è in piena sintonia con Mascia. Sullo sfondo dei vicoli di Roma, il film segue il passo quotidiano dei due protagonisti con naturalezza e senza forzature. Il legame con i ricordi è nei racconti nostalgici come quello del primo incontro di Bruno con la moglie ma c’è anche la paura che altri possano tornare a galla, soprattutto le cose che non sono mai state dette. Nardocci non ha la cattiveria di Risi ne ‘Il punto di rugiada’ ma riesce a condividere con lui un sincero affetto per i suoi personaggi. Sicuramente, sotto questo aspetto, si avverte la sensibilità e il mestiere di un veterano come Maurizio Ponzi, autore del soggetto oltre che co-sceneggiatore assieme al regista con il quale aveva già collaborato nel film precedente, Vado e vengo. Non tutte le situazioni sono adeguatamente messe a fuoco e a volte a La tartaruga manca la compattezza necessaria e si ferma su qualche inquadratura di troppo (il dettaglio della tazzina del caffè, lo sguardo dalla porta della compagna del figlio del protagonista) oltre alla tendenza a farsi accompagnare in modo eccessivo dalla colonna sonora che invece copre anche alcuni necessari silenzi di Bruno e Marcello. Ma ha anche il merito di riuscire a evitare con abilità le trappole di un sentimentalismo eccessivo e di non forzare il confronto generazionale come si vede nel modo in cui è tratteggiata la figura del figlio di Bruno, che è soprattutto incapace di fronteggiare le situazioni che stanno cambiando la sua vita e conserva una sua umanità. In più nella scena in cui i due protagonisti confrontano i risultati delle loro analisi mediche, La tartaruga trova quell’autoironia che è uno dei tratti più felici di questa commedia dolceamara instabile e vivace.
Circa vent’anni fa, a Richard Linklater capitò di leggere un articolo di cronaca nera sul Texas Monthly, a proposito di un personaggio realmente esistente che sembrava uscito da un film. Il periodo della pandemia, molto tempo dopo, si è rivelato quello giusto per riprendere in mano insieme a Glenn Powell (nel doppio ruolo di interprete principale e co-sceneggiatore) quella storia intrigante, che parlava, tra le righe, delle acrobazie possibili del concetto d’identità. “Vivere pericolosamente” è l’unico modo di vivere appieno la vita, spiega Gary ai suoi studenti, all’inizio del film, ma lui sembra perseguire uno stile di vita opposto: solo e riservato, abita in compagnia dei suoi gatti Id e Ego, nel ricordo di un’ex moglie che sta per avere un figlio da un altro. Quando però gli viene offerta l’occasione fortuita di essere lui stesso qualcun altro, per esempio il misterioso e affascinante Ron, sicario dagli occhi di ghiaccio, Gary diventa Ron, e la sua vita prende un’altra direzione. Che ne è dunque del nostro essere profondo? Esiste? Resiste? Mentre ragiona tematicamente sul cosidetto “palcoscenico della vita”, e sul rapporto tra ego e alter ego, Linklater applica l’arte del travestimento anche ad un altro livello: ‘Hit Man’, infatti, è a tutti gli effetti una commedia romantica travestita da thriller poliziesco, in cui il gioco degli equivoci è pompato da un’altissima posta in gioco, e ogni conversazione, ogni mossa, richiedono una performance impeccabile da parte degli attori in gioco. Commedia degli omicidi, con una sceneggiatura da applausi, il film mette in scena il denominatore comune che esiste tra l’arte dell’esistenza e quella dello spettacolo, per il tramite di un Laurence Olivier del lavoro sotto copertura. Il risultato è un susseguirsi teso e divertente di colpi di scena e di duetti e triangoli eccellenti; una farsa degli equivoci solcata da una vena più scomoda e dark, che scorre ai confini estremi della morale e dell’educazione delle giovani menti. Un film che appare leggero, ma, di nuovo, è solo un travestimento. Ci vuole un’esecuzione perfetta, infatti, per mascherare con naturalezza un’architettura complessa.
All’alba del 1800, l’istituto religioso Sant’ignazio deve prepararsi a un evento storico: dal conclave veneziano emerge il nuovo Papa Pio VII, che per l’occasione visiterà tutte le chiese del Veneto e a Sant’ignazio presenzierà a un concerto organizzato per lui. A capo del coro composto da ragazze orfane cresciute nell’istituto c’è Perlina, il quale però è in crisi d’ispirazione e scarica la frustrazione sulle povere musiciste, oltre che sulla cameriera Teresa, una ragazza che non parla ma possiede un grande talento musicale. Con il concerto che si avvicina a grandi passi, saranno le giovani a prendere in mano il destino dell’istituto per proporre una musica decisamente poco classica. È un fulmine a ciel sereno questo esordio di Margherita Vicario, giovane attrice e cantante oltre che figlia d’arte. Cinema e musica fanno evidentemente parte del suo DNA, ma lascia comunque stupiti il livello del suo primo film, un travolgente “feel-good movie” dalla carica sovversiva che remixa il basso e l’alto, e il classico e il contemporaneo. Dietro i codici di un racconto consapevolmente popolare, che strizza l’occhio a un pubblico ampio, c’è l’intento di gettare luce su intere generazioni di donne che in quell’epoca venivano educate come musiciste di alto livello ma senza possibilità di affermarsi o di trovare un’espressione artistica propria. Talenti sacrificati al patriarcato e ai rigidi ranghi dell’organizzazione cattolica, e che la regista omaggia inventando un gruppo di ribelli che uniscono i loro strumenti per creare delle melodie “pop” in grado di scardinare le catene. Fin dalla prima sequenza, in cui la protagonista Teresa immagina una sinfonia ritmata fatta dei gesti quotidiani tra le pulizie in cortile, è evidente il brio scanzonato e ammiccante che anima il film, sempre sul punto di esplodere in un canto liberatorio e completamente anacronistico. Ma per cavalcare questa tensione ci vuole del coraggio autentico, lo stesso che serve alle cinque protagoniste per aprirsi l’una alle altre, in una serie di nottate al lume di candela attorno al prototipo di un nuovo, bellissimo pianoforte. Film fresco che cavalca l’onda di tempi che cambiano, come quella rivoluzione francese di cui si mormora a mensa e che pare porterà finalmente un po’ di liberté per tutte. Da questo punto di vista è apprezzabile il modo in cui si consuma la tanto attesa visita del papa, la cui autorità finisce per essere messa alla berlina pure lei. D’altra parte non può essere un caso, quando tutte le parti maschili principali sono affidate a comici d’altri tempi come Elio, Natalino Balasso e Paolo Rossi (quest’ultimo una scelta non banale in un ruolo corposo che ne beneficia molto). L’italo-francese Galatea Bellugi (in rampa di lancio dopo ‘La Passion de Dodin Bouffant’ e l’ottimo ‘Chien de la casse’) guida poi il gruppo delle protagoniste con luminosa determinazione, facendosi tutt’uno con la musica (con pezzi di Vicario stessa) e con il vivace sound design che coinvolge lo spettatore in un inno al potere collettivo della musica popolare.
Bernadette Chodron de Courcel, moglie del Presidente Jacques Chirac, è la protagonista di una narrazione che sin dall’inizio dichiara di rifarsi ai momenti salienti della storia recente della Francia prendendosi però ampie libertà. Ne seguiamo il progressivo affrancarsi dalla figura dominante del marito al cui successo politico ha contribuito in misura notevole. Catherine Deneuve si muove con grande agio e divertimento nei panni di una donna che impara ad emanciparsi. Catherine Deneuve deve aver provato un grande piacere nell’indossare gli abiti (che a un certo punto un irritato Karl Otto Lagerfeld le impone di cambiare) di una donna a cui fisicamente non assomiglia per nulla ma di cui sa cogliere la capacità di attendere ma anche le spinte in avanti. Affiancata da un Michel Vuillermoz che offre al suo Chirac quel tanto di maschilismo vanesio che gli impedisce di comprendere quanto sua moglie sia in grado di cogliere i necessari punti di svolta strategici molto meglio di quanto non sappiano fare alcuni suoi vanagloriosi consiglieri. Domenach, che scrive il film insieme a Clémence Dargent, sa anche come affrontare la vita di una donna che era a sua volta impegnata sul versante politico ma doveva confrontarsi con due figlie molto diverse. Mentre una sentiva ancora su di sé i segni dell’anoressia l’altra si era dedicata totalmente alla carriera del padre di cui era diventata l’assistente. Nei colloqui con loro la commedia lascia il posto a dinamiche che forse solo una sceneggiatura pensata al femminile poteva cogliere. Era da tempo poi che non si vedeva un poster di un film così ammiccante e carico di significato. Bernadette è al contempo un tutt’uno con la tappezzeria ma anche se ne sta staccando. È la sintesi del personaggio. Se poi, sul versante del gossip, vi chiederete chi fosse l’attrice italiana nella casa di Chirac (almeno così vogliono le ricostruzioni stampa) mentre la principessa Diana trovava la morte nel tunnel dell’Alma a Parigi, se prestate attenzione, finirete con il sentirla indirettamente citare.
Daniel è un ricco newyorkese che non ha mai voluto figli. Un giorno rincontra la sua ex fidanzata canadese di vent’anni prima che gli rivela due cose agghiaccianti: suo figlio è morto in un incidente stradale e il padre era proprio Daniel. Inizia così per lui un viaggio in cerca di un figlio mai conosciuto. Per capire che tipo di persona fosse e costruirsi dei ricordi ex novo parlerà con i suoi amici, i compagni di college e la professoressa che gli aveva rubato il cuore, in un crescendo di scoperte non sempre piacevoli che diventerà per lui una vera e propria ossessione. Un film tormentato sui rimpianti e sulla difficoltà di lasciar andare. È incentrato su questo il nuovo lavoro scritto e diretto dal pluripremiato regista israeliano Savi Gabizon, remake in lingua inglese del precedente ‘Ga’agua’ girato in ebraico. Molto deve alla caratura del suo protagonista, un Richard Gere convincente nel ruolo drammatico di un magnate costretto a fare un bilancio della propria esistenza, dopo una vita passata senza il minimo desiderio di paternità. Diventa padre suo malgrado, proprio quando apprende di aver avuto un figlio e che quel figlio non esiste più. Uno shock che apre una voragine di rimpianti, diventando uno strappo impossibile da ricucire. La sua elaborazione del lutto diventa presto riappropriazione del tempo perduto, e il regista si sofferma a raccontare questo viaggio in un passato mai vissuto. Il passato di suo figlio. Così si spiegano le chiacchierate con chi lo ha conosciuto, ma anche l’ostinazione a difenderne anche le parti più ombrose, dalla droga all’ossessione per la sua sensibile professoressa, interpretata da Diane Kruger.
È un film che fa riflettere su temi giganti, dalla perdita alla paternità (postuma, mancata, e ostinatamente riacquisita), dai turbamenti dell’adolescenza all’amore tossico e psicologicamente violento che un ragazzo può provare.
Gere fa tutto il resto, facendosi carico della forte emotività di un ruolo massiccio per nulla semplice, ma ricco di sfumature. Una volta tanto non interpreta l’eroe romantico, anzi è il suo esatto opposto. Un uomo egoista, assente, che si ritrova suo malgrado catapultato in quell’universo familiare che ha sempre intenzionalmente allontanato. Il pubblico segue con empatia questo viaggio negli inferi di un padre in lutto, seguendone tutto il ritmo volutamente funereo. Ci vuole tempo per comprendere, accettare, conoscere e condividere il dolore. Questo film lo ricorda, forte dell’interpretazione misurata e mai caricaturale del suo inossidabile Gere.
Uzii è un giovane studente che ha tutte le doti per partecipare a un concorso sulla Fisica che gli consentirebbe di ottenere una borsa di studio per frequentare l’università. La sua però è una famiglia che vive sotto la soglia di povertà alla periferia di Ulan Bator. C’è una madre che vorrebbe tornare nella campagna che ha lasciato e dei fratelli minori di cui prendersi cura. Un’opera prima di una regista che offre uno spaccato della società della Mongolia che non manca di portarne in luce le contraddizioni. La yurta è la tradizionale abitazione della popolazione nomade della Mongolia. Nelle rare opere a sfondo etnografico che giungono sui nostri schermi siamo stati abituati a conoscerla come luogo quasi simbolico in cui si conserva e perpetua la tradizione. In questo film, girato nella capitale, questa caratteristica abitazione diventa segno di un inurbamento privo di qualsiasi pianificazione sociale destinato a creare solo disagio. La famiglia di Uzii (il padre è morto e ci sono tre fratelli più piccoli) vive sotto la soglia di povertà anche perché la madre non è riuscita, come si dice con una formula ormai un po’ vuota, ad elaborare il lutto e non si ritrova né nella grande città né nella campagna a cui decide di fare ritorno. Zoljargal Purevedash ci mostra una società che spinge una parte dei suoi membri ad uno sdoppiamento esistenziale che può condurre alla più totale perdita di speranza. Uzii frequenta una scuola in cui la divisa è impeccabile e in cui apparentemente si è tutti uguali. Anzi, si può essere così diversi al punto da eccellere in una materia grazie anche, se ne osservi il comportamento, ad un insegnante che ama la propria materia e crede nella possibile emancipazione attraverso di essa. Però poi nella propria abitazione finiscono con il mancare i beni essenziali e il rischio di imboccare strade non legali si affaccia con tentazioni allettanti. La scena in cui i servizi sociali si presentano con una nuova attrezzatura per il riscaldamento (il tema dell’inquinamento urbano non viene sottaciuto) per poi scoprire che nella yurta non c’è carbone e che la corrente elettrica necessaria per farla partire è stata tagliata per morosità, è emblematica. Perché dopo aver compiuto strettamente il loro dovere ed avere annunciato una imminente distribuzione di riso da un’istituzione ecclesiastica caritatevole null’altro sembra interessarli. Ecco allora che la battuta del titolo originale “If I Only Could Hibernate”, con tutta la sua significatività legata al desiderio di un’uscita seppur temporanea dal vivere sociale, non viene affidata al protagonista ma a un fratello minore già in fondo consapevole non solo del rigore del clima ma soprattutto di quello di un mondo che non sa guardare agli ultimi se non con sussidi che non aiutano a trasformare radicalmente la loro condizione. Potrebbero riuscirci le doti di chi ama lo studio e affronta con passione un mondo complesso come quello della Fisica. Lo sguardo in macchina che Uzii riserva allo spettatore a un certo punto del film interroga i responsabili politici della Mongolia ma, fatte le dovute proporzioni e considerate le differenze, va oltre i confini nazionali per estendersi a tutte le società in cui di fatto gli ostacoli frapposti a chi avrebbe le carte in regola per emergere non sono trascurabili.
Quando Niccolò lascia la moglie Bianca, dopo 18 anni di matrimonio, lei cade dalle nuvole: non si era accorta di nulla, né dell’infelicità del suo compagno di vita, né della sua relazione con un’altra donna. Da quel momento Bianca precipita in uno stato depressivo dal quale cerca di tirarla fuori una psicologa burbera dal cognome importante (si chiama Braibanti, come la vittima di un agghiacciante caso giudiziario), intenta a riportare la sua paziente ad un metro di realtà. Perché Bianca ha attraversato la vita, non solo il suo matrimonio, con eccessiva cautela verso se stessa, con la paura di confrontarsi con le cose che non si ritiene capace di tentare. Così la psicologa le propone un esercizio: fare per dieci minuti una serie di esperienze nuove e così addentrarsi in territori sconosciuti. Bianca, dopo essere stata sospesa dal giornale per cui collaborava, si mette alla prova: al funerale di uno sconosciuto, facendo l’autostop o un po’ di sesso occasionale, persino taccheggiare. Ma l’attende la sfida più grande di tutte: cominciare a fare ciò che non ha mai osato. ‘Dieci minuti’, diretto da Maria Sole Tognazzi e da lei cosceneggiato insieme a Francesca Archibugi, è liberamente ispirato al romanzo “Per dieci minuti” di Chiara Gamberale, di cui conserva la componente fortemente autobiografica. Inizialmente percepiamo il mondo attraverso il punto di vista soggettivo di Bianca, che “non vede e non ascolta”, poi a poco a poco allarghiamo lo sguardo a contemplare la complessità della sua realtà, e soprattutto dei suoi rapporti famigliari: con Niccolò, ma anche con i genitori, con l’amico di sempre e con la sorellastra.
‘Dieci minuti’ può contare su un cast corale e coeso che lavora in armonia, e susciterà commozione in chi è più portato alla lettura soft del dolore. Tognazzi ha una bella mano di regia, e insieme ad Archibugi ha orchestrato una serie di interessanti slittamenti temporali che rendono la narrazione una sorta di detection, sfruttando proprio lo sfasamento percettivo della protagonista che siamo inizialmente chiamati a condividere. ‘Dieci minuti’ dunque si lascia vedere e accompagna lo spettatore con accorata tenerezza: ma un po’ di mordente in più l’avrebbe reso un’opera che ha il coraggio di entrare nel cuore di tenebra della vita – precisamente quello che è sempre mancato a Bianca.
Vittoria è un’attrice che ha commesso un grosso errore: spacciare per proprio un testo teatrale, ricavandone un’accusa di plagio e l’impossibilità di presentarsi ai casting. Federico Landi Porrini è un regista teatrale geniale ma intrattabile che ha disperatamente bisogno di un successo per ritornare in auge, e spera di ottenerlo mettendo in scena al Festival dei Due Mondi di Spoleto un Romeo e Giulietta originale: peccato che non gli venga una buona idea a pagarla oro, e che non riesca nemmeno a trovare i suoi attori protagonisti – anche perché fa del suo meglio per cacciare tutti quelli che gli si presentano, fra cui Rocco, il compagno di Vittoria. La stessa Vittoria, miracolosamente arrivata ad ottenere un provino per la parte di Giulietta, viene allontanata malamente da Landi Porrini. La giovane donna allora decide di imbastire un imbroglio ai danni del regista, travestendosi da uomo e proponendosi per il ruolo di Romeo. Inaspettatamente Federico viene conquistato proprio da quel Romeo sui generis, e Vittoria rinuncerà temporaneamente a svelare l’inganno, prendendo gusto alla possibilità di calcare di nuovo le tavole del palcoscenico.
Un po”’Shakespeare in Love”, un po’ ”Tootsie”, molto ”Victor Victoria” (di cui la protagonista ha anche il nome), e ovviamente “La dodicesima notte” scespiriana, ‘Romeo è Giulietta’ è una commedia degli equivoci gradevole e ben scritta da Pilar Fogliati, Nicola Baldoni e Giovanni Veronesi, che dirige con mano più leggera del solito, rispettando l’afflato gentile del testo. E il cast corale funziona, soprattutto la stessa Fogliati nel ruolo di Vittoria, credibile anche in versione maschile, e Sergio Castellitto ne panni dell’isterico Federico. Ma il colpo d’ala viene da due comprimari: Geppi Cucciari, che ha le battute più divertenti consegnate nel modo migliore nella parte della truccatrice Gloria, e soprattutto Maurizio Lombardi, che invece conferisce pathos e umanità commoventi a Lori, il compagno di Federico. ‘Romeo è Giulietta’ racconta bene la peculiarità del mondo degli artisti teatrali che “tengono più al ruolo che all’orgoglio”, che sono disposti anche a truffare pur di rimanere in scena, che non conoscono altra vita che quella del palcoscenico e fanno del proprio narcisismo una bandiera. E allo stesso tempo celebra la coerenza rigorosa di un regista, l’autentica passione recitativa di un’attrice, l’ammirazione sconfinata di un compagno che forse non brilla per talento ma sa eccellere in generosità d’animo
Dover, 2014. Bernie Jordan ha quasi novant’anni e un grande sogno: quello di partecipare al 70esimo anniversario dello Sbarco in Normandia, l’evento storico cui l’uomo ha partecipato come giovane recluta in Marina il 6 giugno del 1944. Irene detta Rene, sua moglie da 70 anni, è malata e ricoverata in una casa di cura dove anche Bernie ha deciso di trasferirsi per non stare lontano da lei, anche se lui è ancora abbastanza autonomo e indipendente. Quando scopre di essere arrivato troppo tardi per prenotare il viaggio organizzato dai reduci di Dover intenzionati a partecipare alle celebrazioni del D-Day, Bernie decide di partire da solo, con il benestare di Rene che non avverte il personale della casa di cura affinché non impedisca al marito di realizzare il suo sogno. Durante il viaggio Bernie farà amicizia con un ex combattente della Royal Air Force, anche lui reduce dello Sbarco, ed entrambi si confronteranno con i fantasmi del loro passato militare.
Fuga in Normandia è basato sulla vera storia di Bernie Jordan, noto ai media con il soprannome di “il grande fuggitivo” per quella sua iniziativa spericolata, a quasi novant’anni.
Il regista Oliver Parker ha voluto raccontare quella vicenda senza inutili sentimentalismi, creando una storia asciutta e rigorosa che non mette mai in ridicolo gli anziani e non pigia mai l’acceleratore sul patetismo. Ciononostante ‘Fuga in Normandia’ è un film struggente che parla del ricordo, e di quelle guerre i cui reduci poi hanno cercato per tutta la vita di rimuovere la dolorosa memoria. Soprattutto il film parla del senso di colpa che molti militari hanno provato per non essere riusciti a salvare un compagno o a indirizzare meglio le loro pallottole. E parla dell’amore pluridecennale fra due anziani che non hanno mai smesso di provare passione e intimità. Per interpretare questa storia delicata e profonda ci volevano due interpreti straordinari, e Parker li ha trovati in Michael Caine e Glenda Jackson, lui al suo ultimo ruolo prima del ritiro dalle scene, lei al suo ruolo finale prima della scomparsa nel 2023. Entrambi sono credibili e amabili nei panni di Bernie e Rene, una coppia piena di ironia e di saggezza, ancora pronta a mettersi in gioco, nonostante gli acciacchi. Allo stesso tempo nessuno dei due assume atteggiamenti stupidamente giovanilistici, né alcuno di quei vezzi narcisistici che spesso caratterizzano le star del cinema nella terza età, e che comportano l’uso di filtri, trucchi e dosi massicce di chirurgia plastica. Caine e Jackson sono due bellissimi vecchi, fieri di come sono arrivati (insieme) alla loro veneranda età e della loro magistrale esperienza di attori. ‘Fuga in Normandia’ è molto commovente, soprattutto nelle scene che coinvolgono gli autentici reduci dello Sbarco (bellissimo il loro ritrovarsi sulla spiaggia), e manda un messaggio contro tutte le guerre, creando un emozionante incontro pacificatore fra veterani inglesi e tedeschi, e un momento di cordoglio al cimitero di Bayeux dove sono seppelliti più di 5000 caduti britannici, descritti come “un enorme spreco”. Ma c’è anche il momento in cui una donna francese si avvicina per ringraziare Bernie per quell’azione risolutiva del passato, necessaria per porre fine ad un male più grande.
Tratto da:Paola Casella – www.mymovies.it